
Siamo saliti in molti, disordinatamente, come in pellegrinaggio, “per vedere di nascosto l’effetto che fa”: la campagna mitteleuropea di fine estate di Frank Zappa aveva mobilitato energie e affetti.
La sua opera-testamento, “The Yellow Shark”, veniva ospitata dal 17 al 19 settembre nel cartellone delle manifestazioni dell’Alte Oper di Francoforte, per poi trasferirsi a Berlino e a Vienna, otto repliche in tutto: le ultime, era stato ufficiosamente annunciato, che prevedessero anche la sua presenza sul palcoscenico.
Non è andata esattamente cosi: il tumore che l’ha aggredito ormai da un paio d’anni è un ospite ingombrante quanto indesiderato, l’artista è debole e nelle due sole apparizioni di Francoforte Frank ha centellinato gli interventi, dirigendo l’orchestra, per esempio, da seduto, con i movimenti ridotti al minimo.
Nella sala austera, molto tedesca della Alte Oper, nonostante i prezzi alti, si registrava il tutto esaurito e insolita era la composizione del pubblico, con i presenzialisti che anche in Germania esistono, signorotti rigorosamente incravattati e dame solenni e ingioiellate, al fianco di devoti zappiani, vecchi hippies e giramondo che a Francoforte erano convenuti per l’evento di commiato. Si, perché anche senza dirlo, “The Yellow Shark” era l’occasione di saluto estremo (e chissà quanto sarcasmo o premonizione Frank ha messo nel dettare il saluto alle agenzie, prima di infilarsi nell’aereo che lo riportava negli States: “Vado a morire a casa mia”), un de profundisgiocato con garbo e malizia, con il classico vento dissacrante appena percorso da un filo di acidità.
Sulle bancarelle il tripudio di sempre, T shirt, manifesti, programmi di sala, sovrastati da un’immagine spietata, la fotografia di un uomo stanco, invecchiato, in lotta con qualcosa di più grande di lui.
“The Yellow Shark”, che è stato ripreso da una pay-tv tedesca e che pare destinato ad aggiungersi entro qualche mese alla filmografia già folta, dovrebbe poi uscire anche su disco per allungare la vorticosa e convulsa girandola di pubblicazioni che proprio da un paio di stagioni ha subito un’impennata.
Dal punto di vista dello spettacolo, c’è da sottolineare il carattere antologico dell’opera, dove la ripresa di antiche cellule zappiane, pepite scavate dai pozzi di “Uncle Meat” o di “Roxy And Elsewhere”, è stata qui piegata alla volontà del musicista per una rilettura in chiave orchestrale, il drappello di venticinque elementi dell’Ensemble Modern, e supporto dell’amato synclavier a cui Zappa si è ultimamente dedicato spesso e volentieri.
A modo suo, pur inscatolato in un teatro come quella dell’Alte Oper, tutto statue e velluti, “The Yellow Shark” si segnala come una sintesi multimediale, perché oltre a qualche rapida pantomima, all’inizio, nelle battute di riscaldamento e le pistole in plastica che sparano a raffica in “Pentagon Afternoon”, a movimentare l’atmosfera ci pensano poi i sei ballerini della compagnia “La La Human Steps Dance”, mobilissimi, sfrenati, agitati nel loro accompagnamento ginnico-gestuale, una vera e propria botta, un impatto che pare una fulminazione. Compaiono solo in un paio di pezzi; è scintillante, sapientemente estremista la loro incursione, quasi a fare da contrappeso ad alcuni disegni particolarmente fragili, sottigliezze pseudo-minimaliste, di scuola comunque classica, che nei due tempi Zappa ha voluto allestire.
In effetti, il patchwork in alcuni frangenti è sembrato sfuggire di mano al capobanda, certe parentesi si fondavano su partiture e suoni un po’ sbrodolati, ma altrove la tessitura dei fiati, la disposizione degli archi assumevano una delicatezza tutta speciale, una poesia tratteggiata con rigore e con candore. Finale in crescendo per toni e colori orchestrali, gag esclusiva con “Welcome To The United States”, parodia che non si sgualcisce né perde di brillantezza, nemmeno a distanza di tanto tempo. Bene, bravi, bis ed epilogo con applausi torrenziali. Adieu, Mr. Zappa.
(Hi, Folks! novembre-dicembre 1992)